LUCE E NOTTE
Scritto pubblicato su LUCE E NOTTE - Esperienza dell'immagine e della sua assenza.
Antologia a cura di Anna Maria Farabbi e Lucia Gazzino
Collana ARETUSA Ed. LietoColle, 2008
***
Massimo Ferrando
Una giornata di sole
Mi alzo, mi siedo, sfuggo con rabbia e un filo di rassegnazione al mio tedio. Accendo una sigaretta.
Fuori la giornata è assolata, ventosa, vedo attraverso la finestra.
Un amico oggi mi ha scritto che la primavera sta già cominciando. Io sostengo che l’inverno non è mai finito.
Vedo: nel mio ricordo notturno, paesaggi innevati, alte e luminose stelle sulla mia testa fresca, la profondità del cielo osservato da un campo appena tagliato, il profumo del fieno poco distante, e l’uva, quella che il nonno coltivava per se e la famiglia, consumata in pasti frugali tutti i giorni della sua e nostra faticosa esistenza.
Un buco nel cielo. Una notturna visione delle cose. Pipistrelli svolazzano fra i lampioni, disseminati lungo una via costeggiata da muriciattoli, una di quelle vie asfaltate solo di recente, mentre poco prima, prima che io nascessi, sgusciavano silenziose tra le sparute case e i boschi, che inermi accettavano l’oltraggio senza fiatare, ancora convinti di potervisi opporre, con la loro stessa natura di viventi, a questo avanzare canceroso del cemento.
Ed io, qui, seduto in una stanza, lavoro solitario al mio brevetto. È una specie di progetto contro la mia solitudine, e con quel mondo di albe vive, di tramonti impeccabili, di frasi colte e riferite in un dialogo alto e alla pari con la natura, hanno in comune l’ambizione di poter durare, nella visione, un’eternità intera.
Così mi organizzo, assecondo i pensieri, cerco di trovare nel sole un appiglio. Sono stanco, per sfuggire a questa mia stanchezza. Ma mi sforzo di immaginarmi libero, lontano da questi muri, da queste scartoffie, libero dalla nicotina e dal vino, libero dalle ulcere.
La fantasia. Il regno dei morti. Nella visione l’una e l’altro danzano come nel più sanguigno tango argentino, e io sono i tacchi della modella che si è prestata al mio sogno, sono la musica, e all’improvviso ne traggo beneficio. Sprofondo nel divano, tocco il pelo elettrico del gatto, che ha le ore contate, se non impara almeno lui a sostenerla, questa immorale cattività avvinghiata al tedio della vita. Lo vedo scrutare col suo sguardo animale il vuoto, in cerca di topi, di scarafaggi immaginari, lui che non conosce altri cunicoli, altre tane, che non siano queste inventate scorribande notturne, tra le sedie e i giornali. Ma almeno lui si oppone al suo carcere col gioco. È come un bambino, come lui fa fronte con lo scherzo a questa vita, e sa ingannarsi con convinzione, se no impazzirebbe.
Eppure lo so che tutto questo ha un senso. E’ il mio metro, la misura per la mia ipotesi di felicità. Conosco a fondo questa molle cantilena del giorno. Ricorda l’aria immobile di agosto sotto i raggi di mezzogiorno, la noia dopo il pasto tra il dolce e il caffè, spazio breve del giorno in cui tutto è esausto, dormiente, in attesa di un improbabile prodigio.
Ma la mia miseria è la mia misura. In rapporto a quella, le altre ore del giorno hanno il sapore e la leggerezza di uno stomaco vuoto, di una bocca asciutta, che per eccesso di desiderio ricordano la pazienza e l’ascesi del monaco, che per scelta rinuncia all’abbondanza, ma in attesa del giusto eloquio con Dio.
Mi alzo. So che è un gesto eroico. Mi accosto alla finestra chiusa, avvicino il naso al vetro: il mio alito offusca l’invisibile. Poi, come in preda a un raptus, consapevole che la gabbia per un uccello è simbolo di cattività ma anche pretesto per la pigrizia, di scatto afferro la maniglia, la ruoto di centottanta gradi e tiro. L’oggetto ruota sui suoi cardini, tra le mie mani. Silenziosa, una boccata d’ossigeno s’infila nei miei bronchi.
In una giornata tediosa e senza senso, il sole d’impeto si incunea nei miei occhi, mi inebria la vista. Rianimato, dall’alto della mia sicura e notturna dimora, accolgo con tenerezza la fede dei passanti, che con ingordigia fresca e soave si nutre, meglio di me, della vita.
Da Diario di un'anima, inedito
***
"Ferrando sfoglia il suo diario dentro cui ovunque la densità del tedio lenisce il corpo, lo appesantisce schiacciandolo, assediandolo. Tuttavia le righe narrano, individuano, nominano..." ( Anna Maria Farabbi )
Antologia a cura di Anna Maria Farabbi e Lucia Gazzino
Collana ARETUSA Ed. LietoColle, 2008
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Massimo Ferrando
Una giornata di sole
Mi alzo, mi siedo, sfuggo con rabbia e un filo di rassegnazione al mio tedio. Accendo una sigaretta.
Fuori la giornata è assolata, ventosa, vedo attraverso la finestra.
Un amico oggi mi ha scritto che la primavera sta già cominciando. Io sostengo che l’inverno non è mai finito.
Vedo: nel mio ricordo notturno, paesaggi innevati, alte e luminose stelle sulla mia testa fresca, la profondità del cielo osservato da un campo appena tagliato, il profumo del fieno poco distante, e l’uva, quella che il nonno coltivava per se e la famiglia, consumata in pasti frugali tutti i giorni della sua e nostra faticosa esistenza.
Un buco nel cielo. Una notturna visione delle cose. Pipistrelli svolazzano fra i lampioni, disseminati lungo una via costeggiata da muriciattoli, una di quelle vie asfaltate solo di recente, mentre poco prima, prima che io nascessi, sgusciavano silenziose tra le sparute case e i boschi, che inermi accettavano l’oltraggio senza fiatare, ancora convinti di potervisi opporre, con la loro stessa natura di viventi, a questo avanzare canceroso del cemento.
Ed io, qui, seduto in una stanza, lavoro solitario al mio brevetto. È una specie di progetto contro la mia solitudine, e con quel mondo di albe vive, di tramonti impeccabili, di frasi colte e riferite in un dialogo alto e alla pari con la natura, hanno in comune l’ambizione di poter durare, nella visione, un’eternità intera.
Così mi organizzo, assecondo i pensieri, cerco di trovare nel sole un appiglio. Sono stanco, per sfuggire a questa mia stanchezza. Ma mi sforzo di immaginarmi libero, lontano da questi muri, da queste scartoffie, libero dalla nicotina e dal vino, libero dalle ulcere.
La fantasia. Il regno dei morti. Nella visione l’una e l’altro danzano come nel più sanguigno tango argentino, e io sono i tacchi della modella che si è prestata al mio sogno, sono la musica, e all’improvviso ne traggo beneficio. Sprofondo nel divano, tocco il pelo elettrico del gatto, che ha le ore contate, se non impara almeno lui a sostenerla, questa immorale cattività avvinghiata al tedio della vita. Lo vedo scrutare col suo sguardo animale il vuoto, in cerca di topi, di scarafaggi immaginari, lui che non conosce altri cunicoli, altre tane, che non siano queste inventate scorribande notturne, tra le sedie e i giornali. Ma almeno lui si oppone al suo carcere col gioco. È come un bambino, come lui fa fronte con lo scherzo a questa vita, e sa ingannarsi con convinzione, se no impazzirebbe.
Eppure lo so che tutto questo ha un senso. E’ il mio metro, la misura per la mia ipotesi di felicità. Conosco a fondo questa molle cantilena del giorno. Ricorda l’aria immobile di agosto sotto i raggi di mezzogiorno, la noia dopo il pasto tra il dolce e il caffè, spazio breve del giorno in cui tutto è esausto, dormiente, in attesa di un improbabile prodigio.
Ma la mia miseria è la mia misura. In rapporto a quella, le altre ore del giorno hanno il sapore e la leggerezza di uno stomaco vuoto, di una bocca asciutta, che per eccesso di desiderio ricordano la pazienza e l’ascesi del monaco, che per scelta rinuncia all’abbondanza, ma in attesa del giusto eloquio con Dio.
Mi alzo. So che è un gesto eroico. Mi accosto alla finestra chiusa, avvicino il naso al vetro: il mio alito offusca l’invisibile. Poi, come in preda a un raptus, consapevole che la gabbia per un uccello è simbolo di cattività ma anche pretesto per la pigrizia, di scatto afferro la maniglia, la ruoto di centottanta gradi e tiro. L’oggetto ruota sui suoi cardini, tra le mie mani. Silenziosa, una boccata d’ossigeno s’infila nei miei bronchi.
In una giornata tediosa e senza senso, il sole d’impeto si incunea nei miei occhi, mi inebria la vista. Rianimato, dall’alto della mia sicura e notturna dimora, accolgo con tenerezza la fede dei passanti, che con ingordigia fresca e soave si nutre, meglio di me, della vita.
Da Diario di un'anima, inedito
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"Ferrando sfoglia il suo diario dentro cui ovunque la densità del tedio lenisce il corpo, lo appesantisce schiacciandolo, assediandolo. Tuttavia le righe narrano, individuano, nominano..." ( Anna Maria Farabbi )
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